Nel 2002 The Rise of Creative Class teorizzava che l’afflusso di innovatori, imprenditori, artisti, freelance, tecnici stava generando una crescita economica in luoghi come la Bay Area. Ma solo quindici anni più tardi, con The New Urban Crisis, Richard Florida ha invece sancito il fallimento del mito della classe creativa come motore di crescita economica: “the greatest driver of innovation, economic growth, and urban prosperity” the clustering of talent and other economic assets in cities ”conferred the lion’s share of its benefits on the already privileged, leaving a staggering 66 percent of the population behind“. La parabola dello studioso americano è rappresentativa dell’evoluzione della narrativa mainstream sull’economia startup. Un sistema in cui le nuove attività di business, operando come artefatti finanziari, rischiano di generare nuove bolle speculative, come durante l’esplosione della dot-com bubble. Difatti, gli attori economici non sono interessati alle idee innovative in quanto tali, ma al loro processo di valorizzazione finanziaria.

Nel recente dibattito sulle trasformazioni prodotte dalla Silicon Valley, sono sempre più i contenuti che mettono in discussione il modello californiano: dal caso di Cambridge Analytica, alla migrazione degli investimenti dei fondi di venture capital con sede nella Silicon Valley verso startup che operano fuori i confini statunitensi, dal crescente malessere degli startupper verso il dominio di un modello di business finanziarizzato, alla competizione con gli unicorni cinesi. Ma la crisi di questo modello non è solo materiale, ma anche ideologica. Sta riemergendo la frattura tra gli ideali del New Left e la cultura imprenditoriale del New Right. L’Ideologia Californiana è una fede ibrida basata sull’anarchismo hippie, sul liberalismo economico e sul determinismo tecnologico. Come scrivevano Richard Barbrook e Andy Cameron nel lontano 1996: “Californian Ideology promiscuously combines the freewheeling spirit of the hippies and the entrepreneurial zeal of the yuppies. This amalgamation of opposites has been achieved through a profound faith in the emancipatory potential of the new information technologies2. Un’ideologia che traeva la sua popolarità proprio dall’ambiguità dei suoi ideali. Oggi i guru dell’ecosistema stanno creando nuove comunità hippie per riscoprire la lunga tradizione culturale bohemien della Silicon Valley. Una sorta di ritorno alle radici per riscoprire gli ideali fondanti al fine di riprodurre un nuovo orizzonte di valori e rielaborare l’evidente fallimento.

Allo stesso tempo, gli startupper stanno sperimentando nuove alternative. Vi è una rivitalizzazione delle forme cooperative, come le esperienze di platform cooperativism, e le forme alternative di finanziamento. In particolare, le ICO (Initial Coin Offerings) hanno creato un mercato alternativo per il capitale in grado di bypassare il sistema degli investitori istituzionali. Queste forme alternative stanno producendo anche con nuove soggettività, forme di socialità e visioni politiche.

Nel workshop Post-startup Culture organizzato lo scorso Dicembre 2018 dal Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II di Napoli, con Riot Studio, Societing 4.0 e Pidmed si è discusso dei recenti sviluppi dell’economia startup, le conflittualità emergenti e le potenziali alternative che si stanno dispiegando nel panorama internazionale. Tra i temi dibattuti, le nuove forme di lavoro creativo nei coworking, l’economia cripto, le app di dating come mediatori di intimità, le nuove forme di coscienza ecologica, le pratiche di valutazione finanziaria, le esperienze di platform cooperativism e le recenti trasformazioni degli ecosistemi startup.

Contributi che hanno tracciato un nuovo orizzonte ancora da esplorare.

 

 

Articolo scritto da Vincenzo Luise

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