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Un movimento “slow food” per internet?

Diversi critici hanno voluto analizzare il nostro rapporto con le Big Tech, ovvero le major, i “giganti” della tecnologia digitale (come Facebook, Amazon, Apple e Google), paragonandolo a delle insane dipendenze e piaghe sociali: le sigarette, l’inquinamento, la Crystal meth ma soprattutto il junk food. “Junk food” ovvero il cosiddetto “cibo spazzatura” così confortevole, comodo ma vuoto, anzi tossico, capace solo di far ammalare le persone e rendere ricche le major.

Sulla base di questo, agli utenti era stato detto di iniziare una “dieta tecnologica”, di seguire il #DeleteFacebook, ma a distanza di tempo si è capito che tagliare completamente fuori dalle nostre vite i giganti della tecnologia è pressochè impossibile.

Tuttavia sembrano esserci delle strade alternative al junk food del sistema major, come quella pensata da Nicole Wong, una veterana di Google e Twitter, la quale crede che potrebbe essere il momento per un “movimento slow food per internet”, qualcosa che ricordi i primi anni 2000, quando gli algoritmi si concentravano sul mostrare agli utenti informazioni utili piuttosto che qualsiasi cosa giusto per tenere le persone sulla piattaforma. La causa di questa insana situazione sembrerebbe essere la behavioral advertising, la pubblicità basata sulle abitudini comportamentali degli utenti.

Insomma, un vero, terribile, circolo vizioso che però vede contrapporsi questo sentimento slow food della rete che trova il suo esempio più tipico nel rinnovato amore per il podcast. Jake Shapiro, CEO di Radio Public, una società di podcasting, ha dichiarato che i podcast incarnano questo movimento perché sono difficili da condividere sui social media e sono quindi meno dipendenti da tale meccanismo pubblicitario: “piacevolmente ironico il fatto che alcuni dei protocolli open più vecchi di internet siano nuovamente in ascesa”.

Questa visione decentralizzata ricorda di più il “ritorno alla terra” che la blockchain. Del resto se i portali verso il mondo digitale non fanno altro che sfruttarci, perché non pensiamo a curare ciò che abbiamo già di nostro? E allora si torni a controllare tutti gli “ingredienti”: si leggano le newsletter anziché i News Feeds, si torni alle chat di gruppo private, si “personalizzi” di nuovo la persona, si eviti la viralità, si acquisti un proprio server, si apra un blog, si abbracci l’anonimato, si possieda un proprio dominio, si trascorra del tempo sui fedarated social network, ovvero sui social decentralizzati e distribuiti, piuttosto che su quelli centralizzati.

A prima vista sembrerebbe una richiesta di azione individuale per affrontare un problema sistemico. Ma al di là di questo, quando ogni aspetto del nostro comportamento online è sorvegliato e monetizzato, la prospettiva di una vita pulita sembra dolce. L’ex product designer di Facebook, Joseph Albanese, ha deciso ad esempio di”pulire” il suo rapporto con i social media dopo aver lasciato l’azienda l’anno scorso. Ora usa piccoli hack software, utili per bloccare le parti “feed” delle app dei social media.

Certo, alcuni degli utenti più vulnerabili dei social media già praticano queste cose, più per necessità che come scelta di vita. In diverse università, gli studenti neri si affidano a chat private di GroupMe piuttosto che a network pubblici per la propria sicurezza; per anni, giovani donne hanno usato account Instagram anonimi per liberarsi dalle molestie ed eludere le norme culturali. “Proprio come la cultura hacker, le persone trovano naturalmente soluzioni alternative per sfidare questi più ampi sistemi di potere”, dice Brooke Erin Duffy, professore di comunicazione alla Cornell University.

La sensazione è che con ogni probabilità tutto questo “internet artigianale” possa diventare l’equivalente digitale del cibo biologico: più costoso, difficile da trovare e adatto a un gruppo ristretto di persone, persone relativamente benestanti, aggravando gap digitali già profondi. La privacy sembra un prodotto premium, le persone che passano più tempo su internet sono quelle a basso reddito e le pratiche tecnologiche ora criticate negli USA e in Europa sono tuttavia ancora prevalenti nei Paesi in via di sviluppo.

Chiaramente questo sguardo al passato non piace alla Silicon Valley, e questa ritrovata volontà di muoversi lentamente è stata commentata da Caterina Fake, co-fondatrice di un servizio molto amato in passato, Flickr: “Non si tratta di un paradiso perduto, ma certamente le dinamiche erano diverse da quelle attuali”. Secondo la Fake i problemi sono iniziati quando le compagnie tecnologiche hanno introdotto funzionalità che hanno trasformato le reti online da comunità a piattaforme multimediali. Facebook può anche aver usato lo stesso linguaggio della community, ma una volta ottimizzato l’algoritmo di News Feed finalizzato al solo engagement degli utenti, la nostra attenzione è diventata un prodotto che poteva essere venduto agli inserzionisti.

Tutte queste idee stanno emergendo anche nel mondo delle start-up, dove la parola d’ordine sembra essere sempre più spesso: “mira alla sostenibilità, non al monopolio”. Insomma, il dibattito cresce e ruota intorno alla più ampia considerazione: come abbiamo potuto permettere che Facebook e Google arrivassero così lontano raccogliendo dati e lasciando che la pubblicità mirata diventasse una parte così importante della vita delle persone? È stata una strada segnata da dirigenti maschi bianchi che nei loro TED Talks hanno voluto prescrivere cambiamenti che poi non sono riusciti a interrogare il ben più ampio ecosistema tecnologico? L’argomentazione soggiacente al movimento dello slow web sta effettivamente chiedendo ai leader delle società tecnologiche di non essere capitalisti. Quindi, questi primi evangelisti del “web lento” sembrerebbero avere un obiettivo più sperimentale, se così possiamo dire.

Di fronte al potere incontrollato, a volte si vuole e si può fare di più che resistere.

 

Fonte:THE SOOTHING PROMISE OF OUR OWN ARTISANAL INTERNET – Wired.com