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BioArt

BioArt: il lavoro di Mary Maggic tra hacking, scienza e arte

Sebbene gli ambienti “istituzionali” dell’arte non si siano ancora del tutto aperti a questa pratica, la BioArt (o bioarte) continua ad affermarsi come uno dei trend topic dell’arte contemporanea. Sempre più praticata, assume le biotecnologie come medium artistico e si pone come un’esperienza di frontiera: un ponte tra estetica, etica e politica. 

La fine del XX secolo è stata caratterizzata da un elevato interesse mediatico per la biologia molecolare: il completamento dell’intera sequenza del genoma umano, l’individuazione della funzione di diversi geni, lo sviluppo di coltivazioni transgeniche e la clonazione di animali sono stati gli eventi che hanno segnato i primi dibattiti sulle implicazioni delle nuove biotecnologie. Queste hanno smesso di essere di dominio esclusivo della ricerca scientifica divenendo oggetto del dibattito filosofico e politico. In questa atmosfera il sistema dell’arte ha sentito la necessità di invadere i laboratori cercando di legare la sperimentazione scientifica all’esperienza artistica.

“BioArt” definisce un’arte che non ha niente a che vedere con quello che viene definito genomic kitsch (foto, video e animazioni digitali relative alla cultura genetica). Gli artisti che si soffermano su questo tipo di pratiche, infatti, fanno uso diretto di materiale biologico, sintetizzano geni, producono esseri viventi transgenici, lavorano con tessuti vivi, batteri, organismi viventi e processi vitali.

Il termine risale al 1997 quando venne impiegato da Eduardo Kac in relazione alla sua opera A-Positive. Il lavoro, in collaborazione con Ed Bennet, è stato “messo in atto” nella Gallery 2, a Chicago. Nella performance/opera avviene uno scambio dialogico tra l’essere umano ed un biobot attraverso due collegamenti per via endovenosa. Il sangue umano viene accettato dal biobot che ne estrae ossigeno per alimentare una piccola ed instabile fiamma, simbolo della vita.

E. Kac - APositive, BioArt
E. Kac – APositive (1997) | PostDigital Tribe

Il lavoro comporta implicazioni culturali ed etiche, e ragiona sulla condizione del corpo umano immerso nel contesto in cui la biologia incontra la scienza e la robotica. Il corpo non può più essere isolato dal costante contatto con le tecnologie che, oltre a condizionare la nostra vita e le nostre abitudini, penetrano la nostra pelle, il nostro flusso sanguigno consentendo anche nuove forme di terapia e di cura.

La BioArt trova espressione nelle opere di pionieri come Joe Davis e gli artisti di SymbioticA: il laboratorio di ricerca artistica presso la School of Anatomy and Human Biology della University of Western Australia che si occupa, sin dai primi anni 2000, di biologia e scienze della vita seguendo una prospettiva transdisciplinare.

Ars Electronica

 

Molti sono gli artisti che hanno avuto uno stretto legame con questo tipo di pratiche; la maggior parte delle loro opere sono state esposte nel corso degli anni durante il festival Ars Electronica di Linz in Austria.

La BioArt non ha un preciso manifesto tematico, gli approcci alla materia sono infatti particolarmente eterogenei. Non si cerca solamente di descrivere criticamente i progressi della biotecnologia, ma anche di introdurre il materiale biologico come nuovo strumento dell’arte. Essa può coinvolgere il corpo (spesso quello dell’artista) esorcizzando o ponendo l’accento su paure e speranze associate a queste tecnologie, ma può anche cercare in altri processi naturali il proprio oggetto d’indagine. Vengono messi in atto processi di trasformazione sotto forma di performance – documentati attraverso foto e video – cercando di stabilire relazioni tra biotecnologie e condizioni economiche, politiche e sociali; lo scopo è quello di sollevare il velo su quanto accade all’interno dei laboratori per interrogarsi sulle tecnologie ed imparare a utilizzarle.

La corrente artistica si situa, dunque, fra il regno simbolico dell’arte e quello della vita vera. L’estetica così intesa diventa anche invasiva. Un esempio possono essere i progetti di Stelarc, l’artista cipriota naturalizzato australiano che pone alla base della propria ricerca l’idea di una obsolescenza del corpo che può e deve essere “aumentato” estendendone le possibilità. 

Di fronte a pratiche di questo tipo, spesso il senso estetico, ma anche etico, viene messo in crisi, costringendoci a ridefinire i confini tra mondo animato e inanimato, portando anche a rivedere le definizioni di soggetto e oggetto.

Mary Maggic: biohacker, artista e scienziata

Mary Maggic è un’artista cino-americana non binaria. Nata a Los Angeles e attualmente con sede a Vienna, lavora su progetti di BioArt restituendola in varie forme artistiche: dal workshop alla performance, dalle installazioni ai documentari.

Biohacking camp | presso RuralHub (2015)

Abbiamo avuto il piacere di incontrarla e di lavorare con lei nell’estate del 2015 durante il primo Biohacking Camp – organizzato proprio da noi di Societing – che ha visto radunata tutta la scena internazionale del biohacking a Calvanico nella sede del glorioso progetto RuralHub sita nel cuore del Parco dei Monti Picentini in provincia di Salerno. Dal confronto con lei e con tutti gli altri hacktivisti presenti nacque il progetto Rural Hack, attualmente ancora in corso.

Biohacking camp | RuralHub (2015)

Uno dei primi lavori dell’artista è Plants of the Future un progetto interdisciplinare che affronta il degrado ambientale attraverso un’installazione idroponica che combina l’estetica retro-futuristica degli anni ’60 con lo spettacolo scientifico. Questo progetto trova ispirazione dalla deforestazione dilagante del Parco Nazionale di Cusuco (Honduras) e dalla conseguente perdita di biodiversità che ha colpito l’immaginario di Mary Maggic. In Plants of the Future, l’arte  “gioca” con la vita coltivando piante senza terra. L’idroponica, la scienza di coltivare utilizzando solo acqua e luce, voleva essere una soluzione tecnologica utopica (all’epoca) nei piani dell’artista in cui il suolo –  causa della loro distruzione – scompare dallo sviluppo delle piante.

M. Maggic | Plant of the future

Il più recente lavoro dell’artista, invece, si innesta al confine tra le dimensioni politiche e sociali delle teorie di genere ed eteronormatività (la convinzione che l’eterosessualità sia la norma unica per la sessualità) attraverso pratiche di biohacking: un termine onnicomprensivo che rimanda ad una vera e propria biologia DIY che “hackera” la vita. Maggic si interessa in particolare della dimensione politica del biohacking partendo dall’idea di democratizzare strumenti, risorse e conoscenze in ambito scientifico e biologico poiché – come afferma – “la conoscenza è potere”.

Dal 2015, in collaborazione con l’MIT, Mary Maggic lavora a Open Source Estrogen: un progetto di ricerca collaborativo ed interdisciplinare che combina biohacking e design speculativo. Una forma di disobbedienza civile biotecnica, che cerca di sovvertire gli agenti biopolitici dominanti di gestione ormonale, produzione di conoscenza e tossicità antropogenica. 

Studi scientifici dimostrano un alto rilevamento di estrogeni liberi nell’ambiente: nelle feci degli animali, nel liquame, nei rifiuti solidi, nei fertilizzanti e nelle acque. Questo ormone, collegato culturalmente alla femminilità, è difficile da collegare ad una qualche forma di tossicità, eppure ci sono prove di una possibile relazione causale tra gli estrogeni ambientali e gli squilibri per la salute umana, primo fra tutti il cancro al seno. 

Open Source Estrogen project, BioArt
Open Source Estrogen project | PIFcamp

Il progetto inizia con una domanda speculativa: “Se fosse possibile produrre estrogeni in cucina?”. Da questo seme sorgono domande etiche come: “Perché l’industria agricola ha un facile accesso agli estrogeni sintetici e ne fa un largo utilizzo (causando tossicità ambientale) mentre è difficile accedervi per i soggetti trans-femme che desiderano l’ormone per la propria autonomia corporea?”.

In risposta a queste domande il progetto avvia un dialogo pubblico attraverso il biohacking DIY e l’intervento artistico. Utilizzando design speculativo, workshop iterativi e performance in cucina (un esempio è la produzione satirica Housewives Making Drugs), Open Source Estrogen utilizza l’arte per dare avvio a nuove soggettività, stimolare la comprensione e la consapevolezza, pensare in modo critico alle strutture e ai confini culturali che definiscono nettamente maschio e femmina, umano e non umano e normale e anormale.

Per Mary Maggic, la natura DIY della scienza esercita da sempre una certa fascinazione; l’arte, inoltre, è intrinsecamente politica; è – e non può non essere – un’apertura radicale, una delle più potenti forme di attivismo.

La BioArt pone lo spettatore a  contatto diretto con le ansie e le paure generate dalla biotecnologia e lo fa utilizzando gli stessi strumenti della scienza, producendo oggetti reali che sono l’incarnazione di quelle inquietudini.

Fonti e approfondimenti: Illuminate